buona fede

loc. s. f. onestà, convinzione di agire rettamente.
1219 [GRADITe av. 1321]
- Breve di Montieri, (tosc.), a cura di A. Castellani, 1219, par. 26: "It. li vechi co(n)suli e -l nuovi siano tenuti di far fare queste seram(en)ta a tuti l'omini di Montieli ala lor possa a bona fé sanza frode.
La clausola generale buona fede (lat. bona fides) pone le sue basi a partire dal diritto romano, nel quale si profila già la distinzione tra ‘buona fede’ in senso oggettivo, la regola di condotta derivante dall’actio bonae fidei esercitata nell’ambito del processo civile, e ‘buona fede’ in senso soggettivo, requisito che si sviluppa nel quadro dell’istituto dell’usucapione, l’istituto che prevede un modo di acquisto della proprietà in base al perdurato possesso di un bene. Da un punto di vista interpretativo si distingue ancora oggi la ‘buona fede’ in senso oggettivo da quella in senso soggettivo: la prima consiste in un canone fondamentale di correttezza al quale sia il debitore che il creditore è chiamato ad attenersi all’interno di un rapporto di obbligazione (art. 1175 c.c.), la seconda consiste in uno stato psicologico, appunto soggettivo, della parte che “ignora” di ledere l’altrui diritto (art. 1147 c.c.).

Sulla base del TLIO, il Tesoro della Lingua Italiana delle Origini, la locuzione ricorre, fin dall’inizio della sua attestazione, in documenti giuridici in volgare italiano con il significato di ‘convinzione di operare per il bene comune da parte di chi svolge una funzione pubblica’, con specifico riferimento al valore oggettivo di ‘buona fede’. Sono tre le formule giuridiche giunte a noi e risalenti al XIII secolo: la prima di queste attestazioni ricorre all’interno di un documento legislativo, il Breve di Montieri, scritto nel 1219: «It. li vechi co(n)suli e -l nuovi siano tenuti di far fare queste seram(en)ta a tuti l'omini di Montieli ala lor possa a bona fé sanza frode» (in La prosa italiana delle origini: I. Testi toscani di carattere pratico, a cura di A. Castellani, Bologna, Pàtron, 1982, p. 47).

La data di prima attestazione della voce fornita dal GRADIT viene così retrodatata dal XIV al XIII secolo (1219; GRADIT 1321). Riporto le altre due attestazioni della locuzione tratte da documenti giuridici del XIII secolo: la prima è contenuta in un documento lucchese del 1288, la seconda, nello Statuto dell’Università ed Arte della lana di Siena del 1298: «(et) lav[or]era(n)no co·lloro mani tucte quante budella di bu (et) elli ara(n)no u elli potranno avere i(n) buona fede senza alcuna fraude» (in «Studi linguistici italiani», a cura di A. Castellani, VII, 1967-70, p. 26); «Et le sopradette cose e ciascheduna d'esse facciano a buona fede, senza frode» (Statuti senesi scritti in volgare nei secoli XIII e XIV, F. L. Polidori (a cura di), vol. I, Bologna, Romagnoli, 1863, cap. 2, p. 142). Interessante è il caso di un’altra attestazione documentata in testi giuridici del XIII secolo che, diversamente dai casi sopra riportati, si riferisce alla percezione, del tutto soggettiva, di chi agisce nella convinzione di agire attuando un comportamento onesto che non arrechi danno altrui, come si evince dall’esempio che segue: «a çoe che tute le predite choxe foxeno in luxe a çascaduno per venire e exere manefeste, voiando achonoxere la bona fede, [[...]] manefesto che la predita cónpara de la predita peça de tera, [[...]], veraxemente eio le fei e reçevì» (Documenti bolognesi, 1287-1330, p. 75.1). Questo è, a mio giudizio, la prima attestazione della locuzione ‘buona fede’ in senso soggettivo documentata in un testo di lingua volgare. Parallelamente al diffondersi dei significati descritti, a partire dal XIII secolo la locuzione inizia a diffondersi anche in testi non specificatamente giuridici, con il significato di ‘fiducia nell’operato altrui’. La prima attestazione della locuzione con tale significato ricorre nel Libro, un trattato religioso in dialetto cremonese scritto in versi da Ugaccione da Lodi prima del 1265 e successivamente raccolto all’interno del volume Poeti del Duecento, curato da Gianfranco Contini (in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, 1960, p. 612).

Con specifico riferimento ai testi giuridici, nel corso del XIV secolo la locuzione ‘buona fede’ acquisisce lo specifico valore di ‘formula di giuramento’: il soggetto si impegna ad osservare e a far adempiere quanto scritto, senza inganno, e lo fa talvolta rivolgendo le sue parole direttamente ai santi: «Io Gastaldo zuro a li sancti evangelii de Idio con bona fede e senza inganno fare, trattar e ordenare quello, che cognoscerò esser a mazor utilità del comun de Vicenza (Statuto dei mercanti drappieri della città di Vicenza, 1348, p. 13.12). Insomma, nel corso di tutto il XIII secolo e della prima metà del XIV secolo la locuzione 'buona fede', sia che ricorra in documenti di qualche valenza giuridica o meno, evidenzia un valore strettamente etico di orientamento delle coscienze al corretto agire per il raggiungimento del bene comune: in questa prospettiva, nella cultura del diritto medievale, agire in ‘mala fides’ significava agire nel peccato, poco importava se tale azione si esplicasse in un ramo o nell’altro del diritto privato o se l’ignoranza di ledere un altrui diritto fosse scusabile o meno.

Interessanti testimonianze sull’uso di ‘buona fede’ nei secoli successivi provengono dall’archivio giuridico Vocanet & LLI realizzato dall’ITTIG-CNR di Firenze. La prima testimonianza riguarda un’attestazione della locuzione ‘buona fede’ in senso soggettivo documentata negli Statuti del Comune di Montepascali del 1427: «[…] ma se alcuno, che non fosse signore, allogasse terra, e il lavoratore con buona fede la conducesse da lui credendo ne fosse il signore […] non sia l’allogatore condannato […]» (in Statuti del Comune di Montepascali, a cura di I. Imberciadori, Siena, Accademia senese per le lettere e per le arti, 1938, p. 87). La seconda testimonianza proviene dagli Statuti di Padova tradotti dal latino al volgare e pubblicati a Padova nel 1551. Gli Statuti disciplinano chiaramente, in materia di possesso, la distinzione concettuale tra ‘buona fede’ soggettiva e oggettiva così come la conosciamo oggi. Le attestazioni sono documentate, l’una, nella prima rubrica relativa alla competenza del giudice, l’altra, nella quarta rubrica relativa alle cause civili: in riferimento all’uso della locuzione buona fede con valore soggettivo, nel passo si configura chiaramente il significato della locuzione in riferimento ai concetti di possesso e possessore, creditore e debitore, obbligazione e titolo, proprio come disciplinato dall’odierno codice civile e così come oggi lo intendiamo.

Il Vocabolario Dinamico dell’Italiano Moderno (VoDIM), capitanato dall’Accademia della Crusca e contenente subcorpora di diverse varietà della lingua italiana, registra un’impennata di attestazioni proprio negli ultimi due decenni e, in particolar modo, in testi giurisprudenziali e di dottrina giuridica. Delle 109 attestazioni ottocentesche della locuzione, nessuna proviene da testi di diritto, ma da altre tipologie testuali quali i discorsi parlamentari, le prose letterarie, i testi filosofici, a dimostrazione di una crescita d’uso della clausola generale buona fede proprio in tipologie testuali strettamente giuridiche.

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Elena Tombesi - UniUPO - 29/10/2021